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Emozioni, Illusione, Groviglio, Connessioni, sono metafore di una certa Joie de Vivre che ha prodotto immagini meno verbali, meno ciniche e forse per questo meno ordinarie. L’accostamento di parole Inganni – Spaziali, dove “Inganni”, assume una connotazione quasi romantica e trova una traduzione personale nei percorsi psicologici di chi la osserva e “Spaziali” cita l’iperbolico dell’immensità dello spazio; racconta la nostalgia dell’infinitamente semplice, di un modus operandi che oggi continuiamo a replicare con linguaggi codificati nel digitale
T.R. Ciao Armando, raccontaci come hai cominciato, quando hai capito che volevi essere un Designer.
A.M. Tutto è iniziato nel ’60 quando sotto consiglio di Michele Provinciali, un grande designer, decisi di studiare con Albe Steiner e iscrivermi all’Umanitaria, la scuola che avevano fondato insieme. Considero Steiner ancora oggi il mio grande maestro perché da lui ho imparato a disegnare ma soprattutto l’etica. Lui ha trasformato il graphic design da un mezzo di persuasione occulta ad uno strumento sociale diretto a tutti.
Mi diceva sempre: “Dobbiamo pensare che le cose si fanno per la comunità, la società. Se crei delle immagini etiche, ne sarai sempre orgoglioso”. In pratica mi insegnò un concetto molto importante legato al coraggio e all’espressione. Se hai fiducia in te stesso e dai voce alle tue emozioni per creare qualcosa di valore per la società, non te ne vergognerai mai.
Poi nel ’65 vinsi un concorso importante della RAI, RadioTeleFortuna per la progettazione di un marchio. Tra i giudici c’erano Steiner e Bruno Munari, parteciparono più di 9000 studenti di design. Mi chiamarono dalla RAI e dissero “guardi, lei ha vinto il premio”. Pensai che mi stessero prendendo in giro, invece mi recai in RAI ed ebbi la conferma, era tutto vero. Per me era un sogno, essere premiato da Steiner e Munari in persona tra 9000 concorrenti. Questo riconoscimento mi dette molta carica per intraprendere questa carriera
T.R. Hai avuto tanti maestri? Quali sono le personalità che ti hanno influenzato e aiutato nel tuo percorso di carriera?
A.M. Sono stati tanti; tra quelli che considero i miei maestri – designer che mi hanno aiutato nella vita – ci sono senz’altro Albe Steiner, Giulio Confalonieri e Antonio Boggeri per i quali ho lavorato insieme a tanti grandi grafici del calibro di Aldo calabresi e Bruno Monguzzi; e Massimo Vignelli che fu anche il primo a convincermi a partire per New York… E tanti altri designer che ho conosciuto in seguito negli Stati Uniti
T.R. Parlando della tua carriera dunque, della tua produzione, come è cambiato il tuo modo di lavorare negli anni, anche grazie a tutte queste influenze che hai avuto?
A.M. Quando parlo del mio lavoro solitamente lo divido in due grandi periodi: la mia carriera legata ai progetti commerciali, tra cui anche i lavori degli anni 70’ per le case farmaceutiche, i cataloghi per i grandi marchi del design, centinaia di loghi che ho realizzato per aziende e hotel…e poi la mia produzione degli ultimi anni, che ho chiamato Eco-Humanity, un corpo di lavoro completamente diverso.
Negli anni ’70 il mio lavoro era molto influenzato dal Bauhaus e dalla grafica Svizzera, da grandi grafici italiani come Franco Grignani e A.G Fronzoni, oppure anche da artisti che amavo molto come Lucio Fontana e Enrico Castellani. Era un periodo in cui lavoravo molto per case farmaceutiche, il mio lavoro preferito di quegli anni è proprio la brochure del Nirvanil, Il farmaco della Midy per l’instabilità emotiva. L’immagine era semplicemente composta da quattro – cinque strisce di carta piegate, che creavano delle onde, poi fotografate dal mio grande amico fotografo, Mario Carrieri, con cui lavoravo sempre alle immagini tridimensionali. Creavo sempre prima degli oggetti, delle maquette. Carrieri è stato molto importante nella mia vita, perché è lui che mi ha presentato Massimo
Vignelli. E io, grazie a Vignelli poi, sono partito per New York rivoluzionando la mia vita.
Ma dicevo, negli anni ’70 disegnavo questi oggetti e li fotografavo in tre dimensioni. Poi sono partito per l’America, negli anni ’80, e con Massimo ho cambiato completamente il mio modo di lavorare. Facendo Corporate Identity bisognava essere pragmatici e meno sognatori. Sono diventato meno sognatore e più professionista.
Negli Stati Uniti hanno un motto: “Too little, Too late”. Se non arrivi in tempo, o arrivi con con un’idea che non è sufficientemente forte per loro, per il loro business, non sei considerato. Insomma sono dovuto diventare più realista, imparare ad affrontare la realtà in un modo diverso. Anche perché diciamocelo, gli affitti a New York erano molto alti.
Nel 2000-2002 sono stato invitato a Pechino con altri tre grafici internazionali per la giuria del Manifesto della Croce Rossa sulla Pace. Siamo rimasti una settimana a discutere per decretare il primo, secondo e terzo posto classificati su 500 manifesti. Tornando a casa in aereo pensai, se avessi partecipato a questo concorso, cosa avrei disegnato? E disegnai una colomba su un taccuino che trasportava una A dentro alla parola “Peace”. Incontrai poi mia figlia a Parigi, che studiava alla Sorbonne, che mi fece riflettere sull’aggiunta della parola War in contrapposizione. Nacque in questo modo l’immagine che poi diventò un’icona e forse anche il mio lavoro più famoso.
All’inizio la pubblicarono sul Corriere della Sera, poi in America, ad un meeting tra designer, la proiettai e fui applaudito da 500 persone per un minuto. Il grande Chermayeff che era presente, mi suggerì: «This Idea belongs to the world» cosí decisi di mandarla alle Nazioni Unite, e la usano ancora oggi.
Dagli anni 2000 nacque in me il desiderio di dedicarmi a lavori per l’umanità, per la pace, per il dialogo la tolleranza.
T.R. Perché questo cambiamento di rotta proprio nel 2000? Perché prima non ci avevi pensato?
A.M. Perché francamente questi lavori che io faccio adesso di Eco-Humanity non rendono poi molto economicamente. Io li faccio per l’umanità. Certo, faccio delle mostre e poi li porto in giro. Ma non è come disegnare un marchio. Quando ero a New York avevo due i figli, un famiglia da mantenere… Lavoravo per lo più su richiesta dei clienti, da un loro brief creavo marchi, packaging, libri,… Ho impaginato molti cataloghi per brand come Cassina, designer
come Magistretti; mi permettevano di vivere dignitosamente del mio lavoro. Poi quando i figli sono cresciuti e ho vuto più tempo a disposizione ho potuto dedicarmi finalmente a immagini etiche, a tradurre le mie emozioni, come Steiner mi aveva insegnato
T.R. Com’era New York quando l’hai vissuta tu? Quali sono i tuoi ricordi più belli?
A.M. New York era piena di mostre, di arte e di party. C’erano feste tutte le sere, dove si potevano incontrare molte persone famose. Lo sai che ho disegnato il logo e gli inviti per una discoteca? Negli anni ’80 le più famose di NY erano Studio 54 e Xenon di cui Io disegnai il logo.
I party erano infiniti, alla Xenon si celebravano compleanni di persone note e in diverse occasioni ho stretto la mano e chiacchierato con personaggi come Muhammad Ali e Pelè, Sofia Loren… Con Pelè ho perfino giocato una partita di 15 minuti, una storia molto divertente.
A New York poi ho frequentato molti nomi importanti del design, c’erano appunto Ivan Chermayeff e Henry Wolf, Paul Rand, Rudolph de Harak, Milton Glaser, Alan Fletcher,…erano personalità geniali, estremamente colti. Mi hanno arricchito molto. Ho imparato molto da loro, sia dal loro lavoro che dal loro sense of humor.
Nascevano sempre occasioni molto spontanee di scambio. Ne è un esempio il libro “A double Life of 80 AGI Designers” che ho realizzato per l’AGI e che nacque cosi: Un giorno girando per Downtown vidi un camion con una scritta “Milani Movers”, mi scattai una foto davanti per fare uno scherzo a mia madre, dicendole che avevo cambiato lavoro. Poi uscendo dal mio studio incontrai per caso Alan Fletcher, al quale mostrai la foto e raccontai dell’idea di fare un libro con i ritratti di tutti i designer dell’AGI davanti al loro nome usato in un altro business. Mi rispose “Beautiful” e dopo poco mi mandò la sua foto davanti a un fruttivendolo col suo nome.
Fu l’inizio di uno scambio con ben 80 nomi importanti, al quale presero parte anche lo stesso Vignelli e Bob Noorda.
T.R. Hai mai pensato di disegnare dei prodotti o la tridimensionalità è sempre rimasta una percezione?
A.M. Qualche volta ci ho pensato, ma non mi sentivo mai all’altezza di mostri sacri come Enzo Mari, Bruno Munari… Mi piaceva il gioco. L’illusione di avere sulle due dimensioni, tre dimensioni. L’Illusione ottica, l’inganno… Una cosa che magari è piccolissima nell’immagine può perdere completamente le dimensioni e i margini, i confini. È proprio un’immagine senza confini, in qualche modo, a livello di grandezza.
Una volta ho progettato un oggetto da scrivania, ne ho fatto un modello in cartone. Lo immaginavo come accessorio per ufficio, poteva contenere graffette, matite colorate, puntine, forbici… ma è rimasto una maquette, non ho mai avuto il coraggio di proporlo ad un’azienda. Dovrei averla ancora da qualche parte
T.R. Sulla tua scrivania vedo oggetti di ogni tipo, cancelleria, sassi di diverse forme, immagini, ritagli, tagliacarte artigianali. Mi colpisce molto questa lunga fila di sassi tondi sul calorifero sotto alla finestra del tuo studio. Collezioni quello che trovi? Come scegli gli oggetti da portare con te?
A.M. I sassi mi piacciono perché sono tutti ovali, li ho trovati sulla spiaggia a Nizza. Sono l’opposto della geometria euclidea, no? Vedi là sul mio tavolo, ci sono un cubo, una sfera e una piramide di metallo. Voglio contrapporre le forme di metallo industriali ai sassi trovati in natura che ripetono le stesse forme, il triangolo, il cerchio e il quadrato… Mi manca ancora il quadrato, ma lo troverò. Per ora è un gioco ma poi potrebbe diventare un manifesto chi lo sa.
Di solito quando vado a letto tengo sempre di fianco la mia agenda. La mia agenda è un po’ la mia amante. Quando mi sveglio alle quattro, torno un’oretta a pensare. In effetti è veramente il mio modo di rilassarmi. Io mi rilasso pensando delle cose creative.
Nella mia agenda ci sono molti appunti, le mie idee a volte nascono all’improvviso, apro un cassetto della mente in cui c’era da tempo un oggetto raccolto, un’immagine, e lo associo al concetto che voglio comunicare in quel momento. Creo un piccolo frame e inizio a riempirlo con un disegno.
T.R. Da come racconti il tuo processo creativo sembra quasi che non sia per te faticoso creare, che tutto nasca spontaneamente in modo rilassato e naturale, come fai?
A.M. Io ho un grande amico psicanalista che mi insegnava proprio questo: nella vita devi trovare il
modo per trasformare le difficoltà in vantaggio.
O gli errori in opportunità.
Non è stato mai semplice. Quando ero giovane ho affrontato anche momenti di povertà. Sono stato in qualche modo coraggioso. Sin da quando Vignelli mi disse “Dai, vieni, cosa fai qui in Campagna” – chiamava Milano la campagna – e mi trasferii a NY.
La creatività è entusiasmo di vivere, secondo me. Vorrei che questo messaggio arrivasse agli studenti di oggi. Le emozioni vanno trasformate e comunicate. Sicuramente le generazioni di giovani designer oggi vivono un momento completamente diverso per la creatività. L’abbondanza di immagini, la difficoltà ad affermarsi e ad emergere,
insieme alle difficoltà economiche aumentano il rischio di doversi omologare per essere considerati.
Io credo che bisognerebbe insegnare ai ragazzi a non avere timore del giudizio, ad essere azzardati e soprattutto ad indagare, avere spirito critico e idee politiche.
Ci sono due artisti contemporanei che stimo molto, Ai Weiwei che è anche un attivista e Anselm Kiefer. Per entrambi l’arte non ha senso se non si occupa della situazione dell’uomo, dalla terra, dell’ecologia. E hanno perfettamente ragione. Io non mi reputo un artista ma come designer, mi sento responsabile di comunicare delle problematiche. È quello che mi spinge ad andare avanti in questo lavoro.
C’è una parola tedesca che mi sta molto a cuore: zeitgeist. Significa “spirito del tempo”, saper interpretare il momento.
Per me questa parola è importantissima, io cerco di vivere cosí.